CHINA POWER, NAPOLI COLONIZZATA DAI FALSARI CON GLI OCCHI A MANDORLE

E’ martedì pomeriggio, ore 15 circa, quando con puntualità svizzera la sagoma inconfondibile della “Ponte di Rialto”, una nave cargo enorme con circa 600 container a bordo, si staglia all’imbocco del porto di Napoli. “Arrivano i cinesi” commentano sul molo della Compagnia Napoletana Terminal Container decine di nerboruti camionisti di Tir che sin dal mattino ingannano l’attesa giocando a carte e azzannando panini al chiosco di un bar sul fronte del porto commerciale. A breve entreranno nelle aree protette da vigilantes armati per ritirare i container pieni di merce da consegnare ai destinatari. Vietato l’ingresso ai giornalisti. Non c’è scritto sul cartello d’ingresso, ma gli uomini della vigilanza con modi spicci ci dicono: qui entrano solo finanzieri e doganieri in divisa o con tesserino, nessun ficcanaso tra i piedi. Express, Princess, Dragon, Ponte di Rialto sono solo alcuni dei cargo cinesi che vengono presi in consegna a largo di Capri e scortati nelle acque portuali di Napoli da motovedette della Capitaneria di Porto, sia per ragioni di sicurezza che per effettuare controlli antiterrorismo a bordo. Sono scene che si ripetono due, tre volte a settimana nel porto di Napoli. In prima linea, su questi moli enormi, a controllare che nulla venga introdotto illecitamente in Italia, c’è sempre uno sparuto drappello di finanzieri e doganieri che, messi di fronte a questi giganti del mare che trasportano ogni sorta di mercanzia, non sanno dove mettere le mani. Mentre le gru scaricano i doganieri scelgono di visionare il contenuto di qualche container, i finanzieri chiedono di far passare qualche tir già carico e pronto a portare la merce a destinazione sotto un enorme macchina-scanner che ne analizza su un computer il contenuto. Controlli mirati dicono, ma noi possiamo testimoniare che sono pochi e fatti di corsa per evitare la paralisi totale del porto.
In ogni caso, dai cosiddetti controlli mirati effettuati su 10 degli oltre 400 contanier scaricati mediamente da una nave stipata all’inverosimile, è impressionante la quantità di merce sequestrata: dalla salsa di pomodoro falsa, al limoncello di Sorrento taroccato in Cina ed esportato in Europa e Nord America, ai milioni di compact disk con musiche e canzoni della tradizione napoletana copiati nella periferia di Shangai e venduti sulle bancarelle di Napoli e di altre città italiane. Persino le ceramiche di Capodimonte falsificate in Cina arrivano a Napoli a bordo di queste navi per essere marchiate made in Italy ed essere poi messe in vendita come se fossero oggetti preziosi dell’artigianato partenopeo.

Le navi portacontainer che si vedono dal lungomare di Napoli ferme in rada in attesa di attraccare, nell’immaginario dei tanti imprenditori italiani ridotti sul lastrico dall’aggressione cinese dei mercati, sono diventi i cavalli di Troia dell’economia del Belpaese. Nelle enormi pance d’acciaio di quei cassoni che fanno la spola tra il Mar di Cina e il Mediterraneo ci sono praticamente tarocchi di tutto: dalle cravatte ai calzini, dalle magliette di cotone alle ceramiche, dalle lenzuola ai giocattoli, dagli orologi ai binocoli, dai computer alle stampanti, scarpe, telefoni fissi, telefoni cellulari, accessori per telefonini, macchine fotografiche, cosmetici, medicinali orientali, il Ceedra meglio noto come viagra cinese, liquori, cibo e quant’altro può servire ai ristoratori cinesi. Finanza, Dogana e Guardia Costiera recentemente hanno anche fatto scoperte strane e imbarazzanti: tonnellate di pinne di squali usate come afrodisiaci, farmaci che contengono principi attivi del viagra acquistati dai camorristi e utilizzati come dopante per migliorare le prestazioni agonistiche di cavalli e alterare i risultati dei concorsi ippici, liquori analizzati nei laboratori del ministero della Sanità che contengono percentuali minime di Ginseng e altri prodotti naturali ancora misteriosi.

Contro questo tsunami dell’economia illegale che tutto sommerge e travolge, l’inadeguatezza dei controlli e della vigilanza affidata a pochi doganieri e finanzieri destinati a questi compiti appare in tutta la sua evidenza guardando i depositi giudiziari dello Stato al collasso. Immagini che documentano in maniera inequivocabile l’invasione di prodotti contraffatti provenienti dalla Cina. Stipare le patacche cinesi sequestrate è diventato un lavoro improbo per mancanza di personale e complicato per mancanza di spazi a disposizione. E, in tempi di Sars e influenza aviaria, anche pericoloso. In più di un’occasione finanzieri e doganieri hanno chiesto di non maneggiare farmaci o altri prodotti provenienti dalla Cina per evitare contagi. Per evitare di essere sommersi da merce sequestrata e non avendo più a disposizione depositi propri, Finanza e Dogana oramai affittano enormi capannoni da privati, per fare fronte ad un fenomeno devastante. Ci sono migliaia di scatoloni di merce clonata sigillati in questi depositi, che non può né essere distrutta né essere regalata ad associazioni senza fini di lucro senza una espressa autorizzazione della magistratura. Merce che è diventato difficile persino sequestrare. “Non c’è più posto, non sappiamo più dove mettere quello che sequestriamo, tutti i nostri depositi sono stracolmi” spiega un anziano magazzinieri della Finanza che aggiunge: “E’ duro ammetterlo, ma ogniqualvolta apriamo un container cinese per i controlli, preghiamo che ci sia merce lecita perché davvero non sappiamo più dove mettere le patacche. E invece inciampiamo sistematicamente in prodotti contraffatti”.

Di questa merce, fortunatamente, finanzieri e doganieri, nella stragrande maggioranza dei casi, debbono fidarsi di quello che leggono sui documenti di viaggio esibiti dai camionisti all’uscita dagli uffici doganali. Se e quando la Finanza decide di controllare il carico di ogni singolo container sbarcato succede che l’intero porto ed i quartieri a ridosso dei moli commerciali rimangono stretti nella morsa dei tir parcheggiati sulle rampe d’accesso all’autostrada e lungo le strade della viabilità interna dello scalo in attesa dei controlli. Attesa che può durare fino a 12 ore. Ma succede molto raramente. La scelta di Napoli come piattaforma commerciale cinese nel vecchio continente, infatti, non è casuale. La rete di controlli doganali penetrabili come il coltello nel burro, l’insufficienza del personale e l’eccezionale traffico commerciale che gravita sulla zona portuale fanno di Napoli una trincea bucata attraverso la quale far arrivare ogni sorta di prodotti. Qualche dato per comprendere le dimensioni del fenomeno: nel 2004 la sola Finanza di Napoli ha sequestrato circa 14milioni di prodotti contraffatti per un valore di circa mezzo miliardo di euro; nei primi tre mesi del 2005 i prodotti falsi intercettati sono stati oltre due milioni per un valore di circa 100 milioni di euro. Ogni anno dai porti cinesi di Shanghai, Dalian, Guangzhou e Hong Kong arrivano all’ombra del Vesuvio oltre 300mila container stracolmi di merce d’ogni tipo, praticamente il 70 per cento di tutti i prodotti cinesi diretti in Italia.


Un trend in costante crescita che ha consentito di qualificare Napoli come porta d’Italia per l’Oriente, sostituendosi di fatto a Rotterdam ed Amburgo, un tempo scali importanti delle merci provenienti dalla Cina. Nei soli mesi di marzo e aprile del 2004, dopo un blitz dell’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti negli uffici della Dogana del Porto di Napoli per chiedere un giro di vite sull’ingresso di merci illecite dirette in Italia, c’è stata una piccola flessione negli arrivi di navi cargo dalla Cina. Poi l’attracco di enormi navi è ripreso ad un ritmo vertiginoso. Per farsi un’idea delle dimensioni del fenomeno dell’invasione gialla di Napoli, basta gettare lo sguardo a destra e a sinistra dell’autostrada Roma-Napoli 10 chilometri prima di entrare in città: ovunque container con scritte cinesi ammassati uno sopra l’altro fino a formare grattacieli d’acciaio. Ovunque ideogrammi cinesi e le scritte Cosco e China Shipping, società armatrici della Repubblica Popolare Cinese che hanno comprato o affittato ogni spazio libero, capannone, deposito nei pressi del Porto di Napoli.


Un esempio di questi giorni serve a riassumere il malessere dell’economia italiana rispetto al pericolo giallo: una grossa azienda napoletana che produceva reggiseni a prezzi concorrenziali ha chiuso i battenti e licenziato 15 dipendenti. I negozianti che prima acquistavano quei reggiseni a 12 euro l’uno dal produttore napoletano, ora li comprano a 2 euro da un imprenditore cinese che ha messo su una piccola fabbrica a San Giuseppe Vesuviano, comune alle falde del Vesuvio dove risiedono 7-8 mila cinesi (tra regolari e irregolari) su una popolazione di 20 mila abitanti. Da qualche mese il reggiseno è diventato un prodotto cinese: venduto all’ingrosso in un’area espositiva realizzata dentro una mega struttura commerciale alla periferia di Napoli denominata China Mercato, dove i venditori sono solo cinesi e gli acquirenti solo napoletani.

I rapporti d’affari sull’asse Napoli-Pechino sono da boom dell’economia. La Cina, da qualche mese, è il primo paese esportatore nella provincia di Napoli con un valore di 700 milioni di euro circa, seguita dagli Usa con 526 milioni di euro e la Germania con poco più di 400 milioni di euro. Un interscambio commerciale che ha consentito ai cinesi di mettere solide radici nel napoletano, distruggendo quelli che un tempo erano settori trainanti dell’economia vesuviana: tessile e calzaturiero.

Nei primi nove mesi del 2004, le esportazioni dei calzaturifici campani sono diminuite del 15% (attestandosi a quota 132,5 milioni di euro), mentre le importazioni sono cresciute del 55% (raggiungendo i 58 milioni di euro). “Le nostre aziende – spiega Pasquale Pisano, delegato Anci per il Sud (Associazione Nazionale Calzaturifici Italiani di Confindustria) - sono con l’acqua alla gola. Sui nostri prodotti diretti in Cina gravano tassi doganali che variano dal 27 al 30% mentre le imprese cinesi riescono ad esportare con tassi che variano dal 6 all’8% ricorrendo a sistemi al limite della legalità. Se a questo ci aggiungiamo gli scarsi controlli alla dogana capiamo il perché della crisi di tante aziende”. Anche il tessile, un tempo florido settore dell’economia della Campania, oggi è assediato dalla concorrenza cinese. “In pochi anni – denuncia Luigi Giamundo, presidente sezione tessili e abbigliamento dell’Unione Industriali di Napoli – abbiamo perso circa 30 mila posti di lavoro”. Unico imprenditore napoletano che vede nella Cina una nuova opportunità imprenditoriale da cogliere è Gianni Punzo, presidente del Cis-Interporto di Nola, grande snodo logistico che con Brema divide il primato europeo nel settore della distribuzione. “La Cina non è solo contraffazione, ma anche un grande mercato di produzione che necessità di una industria logistica capace di movimentare le loro merci” spiega Punzo, che nei prossimi giorni ospiterà a Napoli imprenditori e autorità cinesi che gli hanno chiesto di realizzare nella zona franca del porto di Pudong un’organizzazione intermodale di carico e scarico merci sul modello dell’Interporto di Nola.

Napoli, Salerno, Gioia Tauro e Taranto sono diventati approdi privilegiati per i cinesi che, dopo aver abbandonato le rotte del Nord Europa, stanno progressivamente lasciando anche Genova, La Spezia, Livorno e Trieste per trasferire al Sud tutte le loro attività logistiche, di carico, scarico, movimentazione e immissione nella rete di distribuzione europea delle merci. La scelta di stoccare nei porti del Sud Italia tutte le merci (legali e illegali) con le quali poi invadere i mercati d’Europa è dettata da ragioni economiche e logistiche.

Le ragioni economiche sono quelle riportate in uno studio Cescom-Bocconi che evidenzia il risparmio netto di denaro e tempo nello scalare merci a Napoli piuttosto che a Rotterdam. Gli economisti lo chiamano transit-time, i cinesi traducono questo termine inglese in risparmio di tempo e denaro. Ma c’è un altro aspetto, forse più interessante, che favorisce la scelta del Sud: le società di terminal (quelle che accolgono e movimentano le merci) nei porti meridionali sono in buona parte nelle mani degli stranieri. A Taranto comandano le società di Taiwan; a Gioia Tauro i tedeschi di Eurokai controllano la più importante società di terminal container, la Contship; a Napoli l’armatore di Stato cinese Cosco detiene circa l’80 per cento del traffico merci e controlla il 47 per cento della principale società terminalista napoletana, la Conateco; a Salerno scala la China Shipping. Si tratta di vere e proprie enclave economico-commerciali piazzate nel cuore pulsante degli scali portuali che consentono soprattutto alla Cina di avere - a Napoli e in altre città del Sud - enormi depositi o stazioni di stoccaggio dove sistemare le merci prodotte in patria.

Una parte considerevole della merce esportata dall’Estremo Oriente è però falsa, patacche o imitazioni di prodotti europei ed americani. I prodotti falsi provenienti dalla Cina, nel decennio ‘93-2003, sono aumentati del 1700%. La quota di merci contraffatte nell’intero commercio mondiale si aggira tra il 7 e il 9%. Cifre e numeri resi noti dall’Unione industriali di Napoli nel corso di un convegno sulla pirateria e sulla clonazione di merci e prodotti sono allarmanti. La stima dei posti di lavoro persi negli ultimi 10 anni a causa di questo fenomeno è di 270.000 unità di cui 125.000 nella sola comunità europea. Il 70% circa della produzione mondiale di contraffazione proviene dal Sudest asiatico. La destinazione è per il 60% l’Unione europea, per il 40% il resto del mondo. La Cina è di gran lunga al primo posto seguita da Corea, Taiwan e altri Paesi del Far East.

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