CAOS RIFIUTI IN CAMPANIA, UN'EMERGENZA INFINITA

La Campania non ha un ciclo virtuoso dei rifiuti. Non ha mai avuto un ciclo industriale della spazzatura degno di un paese civile. La monnezza quotidianamente prodotta in una regione che conta oltre 5 milioni e 700 mila abitanti, e parliamo di 7.200 -7.500 tonnellate di rifiuti solidi urbani, è tutta da spedire in discariche che allo stato non esistono. Anzi, a dire il vero, c’è una sola discarica funzionante nel Salernitano (Macchia Soprana di Serre), qualche sito di stoccaggio provvisorio saturo, siti di trasferenza stracolmi, nessuna area di compostaggio, alcuni impianti di produzione del Cdr (acronimo di Combustibile da rifiuti) che funzionano a singhiozzo e nessun termovalorizzatore o inceneritore della spazzatura.
A tutto ciò, che è già di per sé grave, occorre aggiungere che alcuni dei principi fondamentali che l’Unione Europea ha posto alla base del rispetto dell’ambiente in cui viviamo (riduzione della produzione, riuso, riciclo e raccolta differenziata dei rifiuti) in gran parte della popolazione della Campania sono concetti pressoché sconosciuti. Quasi bestemmie per quanti si ostinano ancora a credere che i rifiuti non sono un loro problema e che le immagini devastanti di una regione sommersa dalla spazzatura sono solo il frutto avvelenato del fallimento di una classe politica incapace, inetta e spesso collusa con camorristi ed eco-criminali e di un Governo nazionale che non ha mai saputo, potuto o voluto mettere fine ad uno scempio che è allo stesso tempo ambientale e morale.
Ecco, spiegare ai campani perché la loro regione è diventata negli anni un immondezzaio a cielo aperto, la pattumiera di ogni sorta di rifiuti provenienti da ogni angolo d’Italia e del mondo, non è così difficile come sembra. L’importante è però intendersi. Se tutto ciò è accaduto è sì colpa in buona parte della miopia della politica e della aggressività delle organizzazioni camorristiche, ma è anche responsabilità dell’inciviltà di quanti (quei cittadini) non hanno saputo pretendere scelte serie dalle istituzioni nell’avviare un ciclo industriale virtuoso (non vizioso) dei rifiuti, non hanno avuto il coraggio di contrastare i camorristi che negli anni hanno ingravidato con la compiacenza anche di contadini ottusi terre fertili con bidoni tossici e scorie radioattive, non hanno voluto assumere modelli di comportamento civili rispetto alla produzione e allo smaltimento dei rifiuti.
Con un linguaggio semplice, diretto, impressionante, due magistrati napoletani (Paolo Sirleo e Giuseppe Noviello), prima di tanti altri, hanno descritto la sgangherata gestione dello smaltimento dei rifiuti in Campania in quest’ultimo decennio, usando una parola che non abbisogna di spiegazioni: “truffa”. Che poi è solo uno dei tanti reati che i giovani e coraggiosi pubblici ministeri hanno accertato e contestato a molti imputati indagando sul business dei rifiuti.
“Il ciclo dei rifiuti si svolge in un regime di truffa aggravata e continuata”: può non piacere ma è questa l’espressione utilizzata dai due magistrati napoletani per spiegare il disastro dei rifiuti. Un concetto duro da digerire ma che è un po’ anche l’amara constatazione della realtà complicata nella quale si trovano ad operare gli inquirenti che stanno cercando di fare chiarezza nell’inestricabile mondo degli appalti per lo smaltimento dei rifiuti in Campania. Due appalti da 700 milioni di euro affidati ad un’associazione temporanea di imprese costituita, tra l’altro, dalla società mandataria Fisia e dalla mandante Impregilo Spa, alle quali sono poi subentrate nel rapporto contrattuale, quali affidatarie, la Fibe Spa e la Fibe Campania Spa. Obblighi delle aziende vincitrici erano quelli di costruire sette impianti industriali dove entrasse spazzatura e uscisse Cdr (Combustibile da rifiuti, le cosiddette ecoballe da bruciare negli inceneritori), edificare due impianti di termovalorizzazione che bruciando le ecoballe producessero energia elettrica (parliamo dei termovalorizzatori di Acerra e Santa Maria la Fossa), gestire questi impianti industriali, assicurare che in attesa della realizzazione dei due termovalorizzatori le ecoballe prodotte fossero comunque conferite in impianti esistenti, non subappaltare le attività di trasporto dei rifiuti e la gestione delle discariche e “assicurare il servizio di ricezione dei rifiuti solidi urbani anche in caso di fermo degli impianti e per qualsiasi altra causa garantendo comunque lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani”. In pratica, anche chi non è avvezzo a queste procedure burocratiche, capisce che ci sono delle gare di appalto aggiudicate ad aziende quotate in Borsa, sono stati stipulati contratti di servizio che specificano in maniera dettagliata gli obblighi da rispettare, e non si capisce perché in altre regioni d’Italia funzioni tutto (o quasi) mentre in Campania è uno sfascio totale.
È così perché il ciclo dei rifiuti della Campania esiste solo sulla carta, nei bei progetti, non nella realtà. Una realtà che in Campania supera anche la peggiore, la più perversa delle fantasie che in questi ultimi mesi milioni di italiani (e non solo) si sono costruiti arrovellandosi il cervello a pensare e a chiedersi “ma perché, ma come mai accade tutto ciò in questa benedetta regione?”.

I magistrati che indagano sul ciclo dei rifiuti hanno dimostrato, con prove documentali accluse agli atti giudiziari con cui hanno portato alla sbarra 28 imputati (politici e manager di grosse aziende), che “nel 2000, quando iniziò questa vicenda, già si sapeva che gli impianti non sarebbero stati in grado di risolvere l’emergenza. Eppure – sono le parole di Giovandomenico Lepore, capo degli uffici giudiziari napoletani – tutti tacquero, comprese le banche che finanziarono la Impregilo, pur sapendo che le opere non si sarebbero realizzate. E chi doveva controllare il rispetto dei termini di quel contratto non lo fece”. Se non è già una sentenza di condanna poco ci manca, di fatto però, con queste poche, durissime parole il capo degli uffici giudiziari napoletani fa comprendere senza infingimenti che la raccolta dei rifiuti in Campania non aveva funzionato, non funzionava e non avrebbe mai funzionato con la sistematica violazione dei contratti d’appalto da parte delle aziende del gruppo Impregilo. Perché? I magistrati Sirleo e Noviello, nella loro inchiesta spiegano chiaramente che le aziende che avrebbero dovuto assicurare la buona riuscita del ciclo di smaltimento dei rifiuti non solo non hanno mai mostrato di avere le idee chiare sui propri doveri e di non aver onorato i contratti di appalto che s’erano aggiudicati, ma avrebbero anche goduto dell’inerzia di quelle istituzioni che invece di controllare che i patti stipulati con gli appalti fossero rispettati, non si accorgevano delle quotidiane inadempienze che si consumavano alla luce del sole. In effetti dall’inchiesta, tra le altre cose, emerge che il controllore invece di denunciare, copriva magagne e giustificava inefficienze del controllato.
Per il momento la magistratura inquirente ha chiesto ed ottenuto sanzioni durissime contro le aziende della costellazione Impregilo, affidatarie degli appalti: interdizione dal contrattare per un anno con la pubblica amministrazione in materia di appalti per i rifiuti e sequestro preventivo di una somma di 753 milioni di euro per le presunte gravi inadempienze contrattuali riscontrate dagli inquirenti. La Cassazione ha di recente annullato con rinvio l’ordinanza del Tribunale del riesame di Napoli. Ora i giudici dovranno valutare con diversi criteri l’ammontare del sequestro dei beni imposto alla società lombarda. In particolare avrebbero attenuato il giudizio della Cassazione le considerazioni fatte dal procuratore generale Gianfranco Ciani, che ha richiesto un abbassamento della cifra del sequestro sulla base del fatto che Impregilo “non è un’impresa criminale”.

In ogni caso nell’ambito di questa stessa inchiesta, i due pubblici ministeri, hanno anche richiesto e ottenuto il processo per 28 persone, tra queste i fratelli Piergiorgio e Paolo Romiti quand’erano ai vertici di Impregilo, il presidente della regione Campania Antonio Bassolino nella sua veste di Commissario straordinario, alcuni suoi vice e altri manager che si sono occupati dell’affare rifiuti.
Rifiuti che catturano da mesi l’attenzione dei media italiani e di tutto il mondo, che hanno amplificato i giudizi sferzanti sull’operato di Bassolino, che a torto o a ragione viene considerato uno degli artefici principali del disastro in cui è stata precipitata la Campania. Sono sette le condotte censurate penalmente dai magistrati partenopei a Bassolino, che dal maggio del 2000 al febbraio del 2004 è stato allo stesso tempo presidente della Regione e Commissario straordinario all’emergenza rifiuti. Si va dalla contestazione del reato di frode in pubbliche forniture (“per non aver impedito” ma anzi “consentito e realizzato la perpetua violazione” degli obblighi previsti dal contratto sulla gestione del ciclo dei rifiuti stipulato con l’associazione temporanea d’imprese costituita dal gruppo Impregilo) al concorso in truffa aggravata e continuata ai danni dello Stato (“per aver consentito e non impedito” che le aziende mascherassero quelle inadempienze con “artifici e raggiri” impedendo per giunta che Palazzo Chigi venisse messo a conoscenza di quanto stava accadendo). Altro reato contestato è quello di interruzione di un pubblico servizio per “aver fornito un contributo omissivo” non contestando la violazione del contratto quando i conferimenti dei rifiuti venivano interrotti. Infine i magistrati Sirleo e Noviello attribuiscono sempre a Bassolino tre differenti ipotesi di abuso d’ufficio e il reato di concorso in violazione della normativa ambientale. Sarà il processo la sede naturale in cui Bassolino e gli altri imputati avranno l’opportunità di difendersi, ma dalla lettura degli atti giudiziari si comprende in maniera chiara, e lo diciamo con il piacere di chi vorrebbe tanto essere smentito, che mai nella storia della pubblica amministrazione italiana abbiamo incontrato precedenti così bislacchi in tema di appalti aggiudicati e non rispettati. E parliamo di appalti redditizi, come lo è l’affare rifiuti ad ogni latitudine, appalti appetiti da grossi gruppi industriali e che prendono forma nella maniera, oseremmo dire, più strana, subito dopo l’approvazione del Piano regionale dei rifiuti ad opera della giunta di centrodestra guidata da Antonio Rastrelli. A leggere gli atti delle commissioni che hanno aggiudicato l’appalto, si comprende chiaramente come altre aziende importanti siano state scartate per far posto alle società della Impregilo nonostante presentassero credenziali migliori nella gestione del ciclo dei rifiuti. Gli assi nella manica dell’Impregilo sono stati la maggiore economicità e il minor tempo richiesto per prendersi in carico la gestione del ciclo dei rifiuti. In pratica, le società del gruppo Impregilo affidatarie della gestione del servizio di smaltimento dei rifiuti, secondo quanto documentato dai magistrati, dopo l’aggiudicazione degli appalti, il rilascio delle autorizzazioni a costruire gli impianti di produzione del Cdr e l’avvio delle procedure per la realizzazione dei termovalorizzatori, hanno cominciato ad incontrare una sequela impressionante di difficoltà. Col passare degli anni, queste aziende, non solo non hanno tirato fuori la Campania dalla drammatica emergenza rifiuti che ciclicamente la sconvolge, ma ne hanno quasi determinato una sorta di progressivo aggravamento delle condizioni di dipendenza da un sistema di gestione e trattamento dei rifiuti prodotti che così come è non funziona. L’emergenza rifiuti, infatti, a raccontarla così, attraverso gli atti della magistratura napoletana che ha gettato un fascio di luce su molti avvenimenti che prima sembravano oscuri, è più semplice di come viene dipinta sui giornali o come viene rappresentata negli interminabili, astrusi dibattiti dei politici in televisione. Le aziende affidatarie del servizio al momento in cui hanno vinto gli appalti avrebbero dovuto garantire come principale obbligo contrattuale lo smaltimento di tutti i rifiuti raccolti in Campania. Come? Ritirando la spazzatura raccolta per strada nei sette impianti di compostaggio costruiti in tutta la Campania, trasformando quei rifiuti in Cdr (combustibile da rifiuti, le cosiddette ecoballe) attraverso un semplice meccanismo industriale di lavorazione, e bruciando queste ecoballe di qualità nei forni dei termovalorizzatori in costruzione. È così che la spazzatura diventa energia, ovvero la principale fonte di ricchezza delle aziende. Era così che i manager della Impregilo avrebbero voluto o meglio dovuto trasformare le 7mila e 200 tonnellate di rifiuti prodotte quotidianamente dai campani in energia elettrica da vendere alla Grtn ad un prezzo triplo rispetto a quello di mercato. Che cosa non ha funzionato in questi appalti? Che cosa ha guastato questo percorso di valorizzazione dei rifiuti che sulla carta sembrava virtuoso e che invece si è dimostrato vizioso? Per i magistrati, se le cose non sono andate bene, la colpa è da attribuire alla truffa delle ecoballe. In pratica, dalle indagini, emerge che le ecoballe prodotte nei centri di stoccaggio avevano (ed in parte hanno ancora) un potere calorifero inferiore alle 15mila Kj/Kg (la regola dice che deve avere sempre un valore superiore) e una umidità superiore al 25 per cento. Sono caratteristiche chimico-fisiche minime, essenziali, previste per legge, per consentire l’avvio delle balle di Cdr (i cilindri di immondizia impacchetta, incellofanata e accantonata dappertutto in Campania) agli impianti di termovalorizzazione in costruzione. Ebbene a spiegare ai magistrati inquirenti quale sia stata la qualità del Cdr prodotto negli impianti delle aziende del gruppo Impregilo ci ha pensato Giulio Facchi, sub commissario all’emergenza rifiuti, persona di stretta fiducia di Antonio Bassolino. Alla domanda se avesse mai avuto cognizione effettiva della pessima qualità del Cdr prodotto negli impianti della Fibe, Facchi, che è imputato nel procedimento penale, non ha nascosto ai magistrati che dagli impianti che lui stesso ha anche visitato “non sarebbe mai potuto uscire Cdr degno di questo nome”. Aggiungendo poi di non aver mai potuto prendere “né cognizione delle analisi effettuate né tantomeno dei soggetti incaricati di effettuarle, almeno fino a quando il problema non comparve sulla stampa e cioè nei primi mesi del 2003. Devo dire – aggiunge sempre Facchi ai pm che lo ascoltano in qualità di imputato – che l’atteggiamento tenuto in Commissariato in ordine ai dati della produzione del Cdr era di massimo riserbo, senza alcuna possibilità da parte mia di ottenere informazioni dettagliate”.
Ma perché tutta questa segretezza sulla qualità delle ecoballe che uscivano dagli impianti delle società Impregilo? Chi avrebbe dovuto controllare che il cosiddetto Cdr (combustibile da rifiuti) avesse le caratteristiche chimico-fisiche previste per legge e che cosa sarebbe successo se queste caratteristiche non fossero state assicurate nei processi di lavorazione dei rifiuti? Sono domande a cui i magistrati napoletani hanno cercato di dare risposte, che sono diventate anche precisi capi di accusa. In pratica i magistrati, sulla scorta di indagini eseguite sia presso le aziende del gruppo Impregilo che negli uffici del Commissariato straordinario di governo per l’emergenza, avrebbero accertato che nei sette impianti industriali campani di selezione dei rifiuti, non sarebbe stato prodotto combustibile derivato da rifiuti a norma del decreto legislativo del 5 febbraio del 1997, il cosiddetto decreto Ronchi. Dalle analisi richieste dai magistrati a consulenti tecnici di ufficio e da quelle sequestrate nelle strutture aziendali e del Commissariato, è infatti emerso che il Cdr prodotto ha un Pci (potere calorifero inferiore) mediamente di 13.200 Kj/kg (ricordiamo che non dovrebbe essere inferiore a 15.000 per Kj/kg) ed un eccesso di umidità (mediamente superiore al 32 per cento) rispetto ai valori previsti dai contratti sottoscritti dalle aziende del gruppo Impregilo (per legge l’umidità non può essere superiore al 25 per cento). In pratica le ecoballe, prodotte secondo questi parametri, ovvero con una umidità superiore e un potere calorifero inferiore alle norme, non potrebbero essere bruciate nei due impianti di termovalorizzazione campani (quello in via di ultimazione di Acerra e quello da realizzare a Santa Maria La Fossa), perché produrrebbero fumi altamente inquinanti. Abbiamo usato il condizionale non a caso, perché tra gli ultimi atti del governo del premier Romano Prodi dopo le dimissioni e lo scioglimento delle Camere, c’è un’ordinanza che dice esattamente il contrario. E cioè che le ecoballe di rifiuti prodotti dai Cdr campani, che eco non sono e che non rispondono ai requisiti richiesti dalla normativa, potranno essere bruciate nel termovalorizzatore di Acerra. In pratica le ecoballe stoccate nella regione, prodotte con materiali di qualità diversa da quella prevista dalle norme, potranno finire nel nuovo termovalorizzatore di Acerra, quello che avrebbero dovuto mettere in funzione a fine 2006 e che invece prima del 2010 non brucerà un grammo di spazzatura. In questo modo, è scritto nell’ordinanza, si accelerano “le iniziative finalizzate al superamento dello stato di emergenza, in particolare per consentire la messa in esercizio in tempi rapidi dell’impianto di termodistruzione di Acerra” che viene autorizzato, al “trattamento e allo smaltimento dei rifiuti contraddistinti dai codici Cer 191212, 190501 e 190503 (rispettivamente le ecoballe campane, la frazione organica non stabilizzata, ossia l'ex fos, e il compost fuori specifica, ndr) presso detto impianto, assicurando comunque il rispetto dei livelli delle emissioni inquinanti già fissati nel provvedimento di autorizzazione”. Per chi non l’avesse capito, quei sette milioni di tonnellate di ecoballe conservate in questi 15 anni di emergenza in ogni angolo della Campania, definite dai magistrati Sirleo e Noviello una truffa, tant è vero che hanno incardinato un processo su questa triste vicenda, ridiventano d’un colpo oro per l’azienda che le ha prodotte e ne è proprietaria. È bastata dunque l’Ordinanza del premier Romano Prodi, datata 20 febbraio 2008 e pubblicata in Gazzetta Ufficiale, a trasformare in una sorta di tesoretto per Impregilo quelle ecoballe che i magistrati napoletani avevano già definito monnezza tal quale, sacchi di rifiuti incellofanati.
E dire che si discuteva, anche nella comunità scientifica, su come recuperare le balle di rifiuti della Campania, quali protocolli seguire per far in modo da poter bruciare quei rifiuti nel costruendo termovalorizzatore di Acerra. Ebbene, quella quantità impressionante di ecoballe che messe una sopra l’altra formerebbero una base grande almeno quanto l’intera aera di Ground Zero e in altezza supererebbero i 4000 metri del monte Rosa, grazie a Prodi non sono più un problema ma una ricchezza. Quelle montagne di rifiuti che rappresentavano l’eredità più pesante che gravava sul futuro della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti in Campania, oggi sono merce di scambio per la Impregilo che sta discutendo con il Governo (che nel 2005 rescisse il contratto) una via d’uscita dal pantano della monnezza campana. Ma su questo provvedimento del governo i magistrati napoletani faranno sentire la loro voce. Insomma, la situazione è ancora difficilissima. Ed il rischio concreto è che la Campania possa davvero essere sommersa dalla spazzatura. Non è una previsione catastrofica degli sviluppi futuri della drammatica emergenza ambientale che sta mettendo in ginocchio la Campania, ma semplicemente un pizzico di sano realismo che ancora riesce a fare breccia nella mente di chi da 15 anni segue da cronista il cangiante, magmatico mondo della monnezza partenopea. È vero, il superprefetto Gianni De Gennaro, chiamato al capezzale di una regione sull’orlo del disastro igienico-sanitario, ha assicurato di liberare le strade dai rifiuti non raccolti da settimane, giurato che terrà fuori la porta i camorristi-imprenditori che frugano nella monnezza come gli avvoltoi svolazzano sulle carogne, ma finora nulla ha saputo o voluto dire su quanto accadrà dopo il 30 aprile, quando il suo mandato scadrà. L’ex capo della polizia, arrivato a Napoli per commissariare il Commissariato straordinario per l’emergenza rifiuti, non ha il tempo materiale e forse nemmeno un’idea precisa su come restituire agli enti locali la responsabilità di un ciclo virtuoso nel settore dei rifiuti. Per ora ha fatto quello che poteva: aperto un sito di stoccaggio provvisorio, avviato le procedure per aprire due discariche ex novo, portato un po’ di rifiuti in altre regioni e firmato contratti con i tedeschi per portare in Germania 160mila tonnellate di rifiuti. Niente di più. L’operazione “San De Gennaro”, come qualcuno l’ha ironicamente definita, non è nuova, non è semplice e nemmeno indolore. Anche perché, l’emergenza rifiuti, porta con se altri mille problemi che la Campania dovrà affrontare di volta in volta. La questione diossina, presa a pretesto da alcune grandi multinazionali per distruggere il marchio della mozzarella Dop. La campagna di stampa internazionale per screditare agli occhi del mondo l’oro bianco della Campania e distruggere un settore economico che produce un fatturato annuo di oltre 300milioni di euro non è infatti una grossa novità. È da qualche anno infatti che i media stranieri, ciclicamente, paventano chissà quali rischi di contaminazione delle mozzarella. L’obiettivo è di distruggere il marchio Dop e poter allevare bufale e dunque fare mozzarella di bufala anche in Germania, Francia, Romania, magari anche con il latte in povere importato dall’Egitto o dall’India. Poi c’è il turismo internazionale che è stato già dirottato verso altri lidi europei grazie all’emergenza rifiuti. Il 2008 sarà l’annus horribilis per la Campania sul fronte delle presenze turistiche. Quindi c’è l’agricoltura, un altro settore economico trainante dell’economia campana distrutto sempre dall’emergenza. Insomma di rifiuti si può morire in mille modi diversi: e la Campania ancora non sa di che morte morire o forse non ha ancora imboccato la strada giusta per tornare a vivere, per tornare ad essere quella che gli antichi romani chiamavano Campania Felix.

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